La storia di Benetton è un viaggio attraverso la moda, la comunicazione e l’identità culturale. Un percorso iniziato nel 1965, in un’Italia che stava lentamente emergendo dalla povertà del dopoguerra e affacciandosi a una nuova stagione di benessere e creatività. Tutto comincia con un maglione giallo acceso, realizzato a mano da Giuliana Benetton e proposto ai negozianti locali dal fratello Luciano. Quel semplice gesto accende la miccia di un’intera rivoluzione estetica: portare il colore nella vita quotidiana degli italiani, rompendo con la sobrietà del guardaroba classico e proponendo capi comodi, vivaci e accessibili.
Ma Benetton non si limita a produrre moda: costruisce un’intera infrastruttura industriale. Negli anni ‘70 l’azienda si dota di macchinari all’avanguardia e di una logistica efficiente che consente una produzione rapida, flessibile e intelligente. L’innovazione più audace arriva con la tintura in capo, una tecnica che permette di colorare i capi dopo la confezione, rivoluzionando tempi, costi e creatività. Grazie a queste scelte strategiche, Benetton diventa rapidamente un brand globale, con negozi in tutto il mondo e una visione cosmopolita inedita per l’epoca.
È in questo contesto che nasce il celebre claim “United Colors of Benetton”, molto più di uno slogan: un manifesto ideologico. Il colore diventa simbolo di inclusione, diversità, dialogo e umanità. Ma il vero punto di svolta è l’incontro con Oliviero Toscani, fotografo visionario che riscrive le regole della comunicazione pubblicitaria. Toscani trasforma le campagne Benetton in atti culturali: non più modelli sorridenti in posa, ma immagini forti, scioccanti, profondamente politiche. Il suo linguaggio visivo sfida i tabù e accende dibattiti globali: bambini soldato, malati terminali, detenuti nel braccio della morte. Ogni manifesto è una presa di posizione, un grido di denuncia che ridefinisce il confine tra marketing e attivismo.
Benetton diventa così un caso unico: un marchio che vende vestiti e idee, che fa parlare di sé non per i trend stagionali, ma per la sua visione del mondo. Ma la forza dirompente della comunicazione ha anche un prezzo. Le polemiche non mancano, le critiche si moltiplicano, e l’immagine del brand finisce col sovrastare il prodotto. Col tempo, la carica provocatoria delle campagne si affievolisce, Toscani lascia l’azienda e il mercato della moda entra in una nuova fase, dominata dal fast fashion e da logiche ancora più aggressive.
Benetton si trova a dover reinventare sé stessa. La concorrenza di giganti come Zara e H&M impone ritmi produttivi sempre più frenetici e strategie omnicanale. Il brand perde parte della sua identità originaria e attraversa anni difficili, segnati da cali di vendite e chiusure di negozi. Eppure, la famiglia Benetton non abbandona il progetto. Investono nella ristrutturazione interna, riportano in casa il controllo produttivo, rilanciano collezioni ispirate ai valori storici del brand e avviano un processo di riposizionamento valoriale.
Oggi, Benetton prova a parlare nuovamente con una voce chiara. Torna a puntare su sostenibilità, inclusività e autenticità, senza rinnegare la propria eredità, ma cercando di tradurla per un pubblico nuovo. La memoria storica diventa un asset strategico: si riscoprono gli archivi, si valorizzano le collezioni iconiche, si raccontano le storie dei fondatori. In un panorama saturo, dove tanti brand si somigliano, Benetton tenta di riaffermare il proprio punto di vista: quello di chi, fin dall’inizio, ha scelto di usare la moda per cambiare il mondo.
La storia di Benetton è il racconto di un’Italia capace di pensare in grande, di un’industria che ha saputo innovare, osare, comunicare e ispirare. È la prova che un brand può essere molto più di un logo: può essere una voce, un messaggio, una visione condivisa. E anche se il tempo delle grandi provocazioni sembra passato, l’eco di quel maglione giallo acceso continua ancora oggi a ricordarci che la moda, quando è vera, ha il potere di fare rumore e costruire ponti.